I partiti facciano un passo avanti

di Daniela Brancati

L’impressione che hai guardando il tg di Sky è di modernità: dall’impaginazione al
ritmo (veloce ma non forsennato!), dalla tecnologia che offre la scelta fra il notiziario vero e proprio e alcuni eventi in presa diretta senza mediazione, dallo stile asciutto alla possibilità per l’utente di utilizzare il servizio quando vuole lui e non quando lo impone il canale. Insomma, è una finestra sul contemporaneo. Invece i tg della Rai sembrano non toccati ancora dalla modernità: lì tutto è rito, sia negli esempi migliori, sia negli eccessi di partigianeria. Oggi come vent’anni fa. Non che io sottovaluti la forza del rito, anzi… tanto è vero che quando si verificano eventi eccezionali nessuno fa a meno di sintonizzarsi su Rai. Perché, come scrivono Mattucci e Rolando, il marchio ancora tiene.
L’autorevolezza c’è e quando c’è la brand equity, molto si può ancora fare. Il marchio è amato e odiato. Sia dai cittadini che dai giornalisti della carta stampata, che criticano aspramente l’azienda e (quasi) tutti vorrebbero andarci a lavorare. Come dire la signora è anziana ma ha ancora il suo fascino. Si può essere anziani e saper parlare ai giovani, a patto di aver imparato dalla propria storia, di fregiarsene addirittura, come Anna Magnani che al truccatore diceva “lasciamele queste rughe, ci ho messo tanti anni a farmele venire così”. Perché le rughe della Magnani erano belle? Perché portavano in sé intelligenza, carattere, elaborazione delle proprie sofferenze, consapevolezza del proprio ruolo nel mondo.
Tutto quello, insomma, che manca a Rai oggi: le rughe ce le ha, ma non sono fascinose.
Avere un passato grande non basta, se non aiuta ad affrontare degnamente il presente, se viene dimenticato o addirittura condannato all’oblio. Se manca la certezza del ruolo che si è chiamati a svolgere.
Nata con la mission comune a tutti i servizi pubblici europei: ‘informare, educare, intrattenere’, verso la metà degli anni ’70 si è vista sottrarre i suoi scopi fondanti, sostituiti dall’obiettivo primario di ‘trattenere all’ascolto’ quante più persone possibile per continuare ad avere un primato a qualsiasi costo, per competere.
Ma questo avveniva senza un cambiamento statutario, senza una grande discussione che ne rigenerasse la legittimazione. Avveniva all’interno di una guerriglia che – come sempre nel nostro paese – riproduceva l’eterna battaglia degli Orazi contro i Curiazi, di Juve e Inter, di Roma e Lazio. Aggravata stavolta dalla presenza di un imprenditore aggressivo e spregiudicato, di quelli che nel paese delle partecipazioni statali non eravamo pronti ad affrontare. Berlusconi, ovviamente.
La politica, chiamata a definire il sistema radiotelevisivo in regime di concorrenza,
non ha saputo dare al sistema stesso altro che una legge- pasticcio, frutto non di sana mediazione politica ma di incrocio fra affarismo e politica. In questo pasticcio mai si è definito cosa caratterizzi il servizio pubblico televisivo.
Si è detto il pluralismo, ma dopo una breve stagione (quella per capirci di Scarano a Raiuno e Fichera a Raidue) i partiti hanno tirato le briglie e chiarito in via definitiva che il pluralismo non si deve intendere come spazio alla società, ma ai partiti un tanto per ciascuno secondo la forza elettorale.
L’azienda aveva in sé qualche talento per organizzare l’autodifesa, ma nessuna risorsa è inesauribile e, finiti quelli per enne motivi che sarebbe qui troppo lungo ricordare, compresi quelli anagrafici, è rimasta una struttura che fa fatica a vivere nel contemporaneo per le incrostazioni burocratiche, sindacali e naturalmente politiche che nessun management può rimuovere senza una chiara inequivocabile definizione degli obiettivi.
E qui veniamo al punto: chi può restituire alla Rai il suo giusto ruolo nel sistema e una certezza su quali obiettivi perseguire? Gli stessi partiti che hanno avvelenato i pozzi senza riuscire a compiere una vera ritirata, ma inquinando l’acqua bene comune. Sarei ricca se avessi qualche euro per ogni volta che ho sentito i politici affermare ‘i partiti facciano un passo indietro e rinuncino alla Rai’. Ancora negli ultimi mesi e ormai tutti i giorni visto l’avvicinarsi della scadenza del cda, la proposta torna a essere: cambiamo il sistema di governance della Rai. E come? Un po’ di storia ci può soccorrere. Sono stati sperimentati negli anni diversi tipi di ‘governance’ cambiando le fonti di nomina degli amministratori. Dal vecchio enorme cda in parte Iri e in parte Parlamento, allo snello cda nominato dai presidenti di Camera e Senato, fino all’attuale. Il risultato è stato sempre lo stesso: le mani sulla Rai in modo identico a prescindere dalle maggioranze al governo. si dice: mettiamo un uomo solo al comando, partendo dall’idea che uno solo debba per forza essere una sintesi di appetiti di una decina di formazioni politiche. Io dico no grazie, se l’azienda deve fornire un servizio pubblico non deve essere un’azienda governata per essere ‘normale’, e aggressiva sul mercato, ma distinguere la propria
gestione in funzione di obiettivi diversi. Per non parlare del rischio che la persona
preposta sia espressione di una maggioranza che oggi è (troppo)larga e praticamente senza opposizione, ma domani tornerà a essere quella normale. E gli esclusi che faranno?
Si dice: l’essenziale è frapporre un maggior numero di filtri fra la politica e l’azienda.
Creando authorities (ancora!) e fondazioni (ancora!), come se non esistessero i telefoni, le mail e ogni altro tipo di comunicazione lecita o meno lecita, corretta o meno, a supportare gli intenti lottizzatori. Come se negli anni non avessimo ascoltato o letto intercettazioni fra politici e componenti di autorità o fondazioni bancarie. Qualcuno chiamava per chiedere, qualcun altro per imporre e qualcun altro per esultare di presunte vittorie comuni. Come sempre il bene e il male sono dentro di noi, inutile pensare che un qualsivoglia marchingegno tecnico sia in grado di vincere l’intenzione perversa. Io sono contraria alle ipocrisie. Perciò dico chiaro che non esistono alchimie che possano impedire lottizzazioni selvagge. Ma solamente la reale intenzione dei partiti di fare un passo… avanti. Sì, avanti e non indietro come affermano tutti, tranne fare il contrario alla prima occasione. Avanti nel dichiarare perché hanno scelto le persone e quali siano le loro competenze. Avanti nel dare loro un mandato chiaro, degli obiettivi e la delega piena per raggiungerli in un certo numero di anni. E chiamarli a verifica, a rispondere del prodotto, ogni sei mesi. E non tutti i giorni. E non ogni volta che qualcuno legge i dati dell’Osservatorio di Pavia. E non ributtando la propria ansia sulla Rai ogni volta che i sondaggi ti danno in calo e te la devi prendere con qualcuno. Sono pochi i momenti in cui la partecipazione di un politico a un talk show è decisiva e ancor meno quella in cui è memorabile. I partiti devono sapere, e non so perché fanno finta di non saperlo, che è molto più rilevante per le scelte elettorali dei cittadini il modello culturale e sociale proposto dal complesso della programmazione (spot pubblicitari compresi) che la loro frase detta a Floris o a Vespa.

Per fare questo più che un criterio di nomina devono decidere un criterio di verifica e ad esso attenersi rigorosamente. Si dovrebbe dare alla commissione parlamentare di vigilanza sui servizi radiotelevisivi la possibilità di convocare esclusivamente i consiglieri di amministrazione e non anche i dirigenti dell’azienda. Innanzitutto perché con questo meccanismo ogni parte politica convoca i dirigenti della parte avversa per ‘far loro le bucce’ e viceversa. In secondo luogo perché la commissione ha nominato i consiglieri e a questi e solo a questi deve chiedere conto dell’operato, con cadenza con superiore ai sei mesi, il tempo minimo perché una qualunque decisione possa essere assorbita dalle strutture aziendali e messa in atto. Tutti i nominati, dai consiglieri al direttore generale fino alle linee di primo riporto dovrebbero avere contratti vincolati rigorosamente agli obiettivi e a tempo determinato. Per nessun motivo si dovrebbe fare a un primo riporto un contratto a tempo indeterminato che gli consenta di lavorare un certo numero di anni e lamentarsi e tramare tutto il resto della sua vita lavorativa, come attualmente accade.
E poi bisogna eliminare la contraddizione per cui chi ha poteri di nomina non può anche destituire colui/lei che ha nominato. Se non esiste la sanzione nessuna norma è efficace, insegnano alle matricole universitarie di giurisprudenza. Se il consiglio di amministrazione sbaglia, o fallisce gli obiettivi, deve essere sanzionato. È la natura ambigua metà di spa e metà di ente pubblico che rovina la Rai perché, nelle pieghe della contraddizione, ogni magagna è consentita.
Tutto ciò detto resta il problema dei problemi: ha ancora senso un servizio pubblico televisivo ai giorni nostri, con la moltitudine dei canali tv e con l’informazione e l’intrattenimento garantiti da ogni tablet, da ogni smartphone, da ogni ragazzino che smanetta il web?
Questa mi piacerebbe fosse il punto di vera discussione. A questa inviterei Bersani e tutti quelli che come lui ritengono che il problema sia un’ennesima riforma. E naturalmente inviterei anche Alfano, se non pensassi di sapere già la sua risposta, quella che Silvio Berlusconi ha sempre dato da quando iniziò la sua avventura imprenditoriale: la Rai deve fare tutto ciò che la tv commerciale non fa. Quindi, per definizione tutto ciò che è noioso, o educational o destinato al basso ascolto.
Chiederei dunque a Bersani se ritiene che un servizio pubblico sia secondo lui una tv che divide il pluralismo come si dividerebbe una mela.
Oppure… Nel caso mi legga, o comunque gli venga all’orecchio, ecco cosa secondo me dovrebbe essere un servizio pubblico. Lo metto sul tavolo nella speranza che alimenti una discussione.
Dovrebbe essere il luogo della massima modernità e sperimentazione di nuovi linguaggi il che non è possibile se non lo si dota almeno delle nuove tecnologie di produzione e trasmissione che del linguaggio sono i presupposti. E se non lo si lascia libero di sperimentare nuovi conduttori, giovani se possibile, donne se possibile, anche sbagliando
e possibilmente non sbagliando. Il che non può accadere se ogni volta che si cambia il palinsesto si grida alla lesa maestà di qualcuno.
Dovrebbe essere il luogo della non volgarità, e dunque bandire la banalità che è la madre di ogni volgarità.
Dovrebbe essere il luogo collegato a tutte le eccellenze delle nostre università dove – quando non li abbiamo già fatti scappare – pure si ricercano e sperimentano apparati e linguaggi. Ma anche a tutte le cantine dove giovani, creativi quanto lontani dal potere, inventano davvero.
Dovrebbe essere il luogo svincolato dalla tirannia del mercato e tornare a reputare la pubblicità come entrata puramente accessoria.
Dovrebbe essere il luogo in cui si osa in nome della libertà di espressione.
Dovrebbe essere tanti luoghi ancora, ma ormai il mio pensiero è chiaro.
Desidero completare l’elenco con il brano di un’intervista che mi ha concesso Massimo Fichera per il mio Occhi di maschio, Le donne e la televisione in Italia. Una storia dal 1954 a oggi. “Sono convinto che l’articolo della Costituzione che legittima la Rai come servizio pubblico non è soltanto quello sulla libertà di informazione, ma l’articolo 3, laddove si dice che tutti i cittadini sono eguali e che lo Stato ha il dovere di intervenire attivamente per superare le diseguaglianze”.
Già sento le obiezioni di quelli che sono contrari alla televisione pedagogica, ma li rassicuro: non penso che la Rai debba ritornare a ‘Non è mai troppo tardi’, quando operava contro l’analfabetismo. Però… di analfabetismi nuovi ce n’è ancora tanti e le diseguaglianze si superano dando a tutti pari opportunità.
Un’azienda che non discrimina, dunque. Anzi, che fa politiche attive contro la discriminazione. Consapevole che la massima discriminazione viene fatta dalle tv generaliste fra chi ha gli strumenti culturali per difendersi da certi modelli e chi quegli strumenti non ce li ha.
Il modello sociale e culturale proposto in questi ultimi venti anni è il frutto avvelenato che ci hanno offerto tutte le emittenti tv generaliste, fatto di rozzezza e banalità e particolarmente disgustoso nei confronti della rappresentazione della donna.
Però vorrei ribaltare la frase corrente: ‘la tv dà quello che la gente vuole’. I casi degli ultimi anni – pochi ma non per questo meno rilevanti, si pensi a Benigni che leggeva la Divina Commedia in tv, o a Saviano/Fazio di ‘Vieni via con me’ o allo stesso Fiorello del ‘Il più grande spettacolo dopo il week end’ – dimostrano il contrario: la gente ha voglia e avidità di prodotti di qualità, alla cui offerta risponde con interesse dando audience di massa a prodotti non massificanti. Dunque la gente prende quello che la tv dà e non il contrario. Ecco uno spazio sconfinato di sviluppo per la tv di qualità. Ma soprattutto, per tornare ai modelli sociali e culturali proposti, c’è una necessità reale e non procrastinabile di quello che Loredana Rotondo chiama un collasso culturale e simbolico. Una cesura che ci proponga uno sguardo diverso sul mondo. Abbiamo bisogno che la televisione ci restituisca una rappresentazione più equa delle donne innanzitutto e poi dell’intera società. Contribuendo alla ricostruzione dell’etica pubblica e del senso di comunità, due ‘materie’ nelle quali noi italiani siamo bisognosi di una nuova alfabetizzazione. Due obiettivi che da soli ridarebbero nuovo senso e legittimazione al servizio pubblico.
Ecco, di questo mi piacerebbe che si parlasse, perché questi obiettivi non sono aggirabili, laddove le tecniche di governance si possono piegare alle logiche più tradizionali e negative.

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